Le sculture antiche erano sicuramente dipinte e con colori vivaci, allora perché noi moderni preferiamo immaginarle bianche e anzi al colore bianco sovente associamo il concetto stesso di classico. Dove nasce questa nostra predilezione per il bianco?
Questo nostro preconcetto sulla scultura antica ha una lunga tradizione che risale almeno al Winckelmann, il fondatore della storia dell’arte e dell’archeologia. Il Winckelmann, pur conoscendo esempi di sculture in marmo colorato (come lo Scipione Maggiore in basalto verde della collezione Rospigliosi), considerava il colore come un accessorio, che poteva servire per mettere in risalto la bellezza ma non ne costituiva l’essenza. Nella sua Storia dell’arte dell’antichità, infatti, affermava: << il colore contribuisce alla bellezza, ma non è la bellezza, bensì esso mette soprattutto in risalto questa e le sue forme. Ma poiché il colore bianco è quello che respinge la maggior parte dei raggi luminosi e che quindi si rende più percepibile, un bel corpo sarà allora tanto più bello quanto più è bianco, e quando è nudo sembrerà più grande di quanto è effettivamente>>.
Gli studi successivi, già dal 1814, chiarirono l’equivoco generato dalle parole dello studioso tedesco a cominciare dal saggio di Quatremère de Quincy sulla policromia del Giove di Olimpia. Seguirono poi gli studi di Georg Treu, direttore della collezione di scultura antica di Dresda, sulla policromia del frontone orientale del Tempio di Giove a Olimpia (1886). Nell’Ottocento si era quindi a conoscenza del colore delle sculture antiche, ed erano stati fatti anche alcuni esperimenti per riprodurre la policromia delle statue. Ai primi del ‘900 si collocano poi le ricostruzioni di Adolf Furtwӓngler, di tipo filologico, dei colori del frontone del tempio di Atena Aphaia a Egina. Dopo questo lavoro si assistette però a un calo dell’interesse generale degli studiosi per il tema del colore nella scultura antica. In breve tempo, questo disinteresse portò a una visione del bianco per certi versi ancora più radicale di quella elaborata dal Winckelmann stesso. I risultati degli esperimenti ottocenteschi sul colore furono rimossi e si giunse a quel gusto “neoclassico”, che costituisce oggi il sostrato della nostra cultura.
Una rinascita dell’interesse per la policromia delle statue antiche si ebbe solo con gli anni ‘80 del secolo scorso. Nel 2004 poi si è svolta ai Musei Vaticani una mostra, intitolata “I colori del Bianco”, che ha contribuito a riportare in auge la questione del colore delle sculture antiche. Il percorso della mostra composto da ben 15 pezzi, tutti di altissimo livello qualitativo, seguiva un ordine cronologico che dall’età arcaica arrivava fino all’età tardo-antica. La mostra si apriva con il famoso Leone di Loutraki, prestato ai Vaticani dalla Gliptoteca Ny Carlsberg di Copenaghen. La ricostruzione a colori mostrava oltre al giallo del pelame, il blu della criniera e il rosso delle vibrisse e dei peli intorno agli occhi dell’animale. La scelta di colori così accesi ha suscitato qualche dubbio, ma le ricerche condotte da Vinzenz Brinkmann hanno dimostrato che, in età arcaica, le criniere e i ciuffi delle code degli animali erano in genere dipinti in blu, rosso o verde. Tra le ricostruzioni esposte spiccava, vicino all’originale, il calco a colori dell’Augusto di Prima Porta. Questo aveva probabilmente l’incarnato e il fondo della corazza del colore del marmo: tracce di colore, infatti, si sono riscontrate solo sulle vesti e sui rilievi della corazza. Il fondo neutro serviva verosimilmente a mettere in risalto la scena figurata della corazza, che rappresentava un evento storico importante: la restituzione delle insegne catturate dai Parti nella battaglia di Carrae.
Per ricostruire i colori originali dei pezzi esposti sono stati necessari alcuni studi preliminari, che si sono avvalsi di foto a luce ultravioletta, a luce radente, di esami microscopici e di analisi chimiche. La luce ultravioletta, nello specifico, permette di rivelare la labile traccia di quei colori che non sono più visibili a occhio nudo. La luce radente, invece, evidenzia i graffiti del disegno preparatorio delle parti figurate e il diverso stato di conservazione della superficie, che l’esposizione agli agenti atmosferici ha più o meno consumato a seconda del grado di resistenza del colore. Con questa tecnica è stato possibile per esempio ricostruire l’incredibile geometria delle vesti dell’arciere (il c.d. Paride) del frontone occidentale del tempio di Atena Aphaia: il guerriero troiano, sotto il corpetto, indossa una sorta di tuta elastica a rombi colorati che si adatta perfettamente alle forme del suo corpo. La ricostruzione dei colori si basa naturalmente, oltre che sulle tecniche descritte, anche sul confronto con opere coeve che conservano ancora tracce del colore originario e sulla logica cromatica antica (come nel caso del Leone di Loutraki).