Nei secoli scorsi un rudere su cui era abbarbicata l’edera poteva costituire un’espressione tipica nel paesaggio della campagna romana.
Nel nome di una Roma che fuit i viaggiatori all’epoca del Grand Tour avevano cantato e dipinto il valore estetico della flora spontanea sulle rovine. Una presenza, questa, che a volte ci appare idealizzata, soprattutto se la ricerchiamo nelle prime foto di Roma che ci sono pervenute, come quelle scattate dall’archeologo inglese Thomas Ashby (1874-1931), da cui comunque riemerge una Roma molto diversa da quella odierna, fatta di stazzi e paesaggi immensi.
Il tema della vegetazione sui monumenti fu, a partire dalla metà dell’800, affrontato anche nell’ambito del restauro architettonico, con posizioni forti come quelle di John Ruskin (1819-1900): “Nell’architettura la bellezza aggiunta ed accidentale si trova più spesso nelle rovine e consiste nella caducità: dato che quando la si cerca, la si trova nel sublime delle lacerazioni o delle fratture, o della patina, o della vegetazione […]”.
A Roma la contessa Fiorini Mazzanti (1799-1880), affiliata all’accademia dei Lincei, pubblicava negli anni Settanta dell’Ottocento un’opera in cui si dichiarava contraria ai diserbi che erano allora in atto sul Colosseo: “Mestamente presento a questo illustre consesso la quasi spenta florula di quell’alto monumento di Roma che nelle sue gigantesche rovine siede a testimonio della caducità di ogni grandezza e possanza umana, comecché quest’una attesti goduto in un tempo il dominio dell’universo. […] Natura piacevasi vestir di poesia le venerande mura, temperandone la severità con il vago ornamento di piante e di fiori […]”.
Alla fine del “secolo lungo” l’archeologo Giacomo Boni (1859-1925) si adoperò per una distinzione fra piante da proteggere per la loro valenza naturalistica e culturale, e quelle parassite. Le prime come gli allori e i mirti, a suo dire capaci di suscitare nel visitatore i versi della seconda ecloga virgiliana: “e coglierò voi, o lauri, e te, vicino mirto, dato che, così posti, diffondete soavi odori”; le seconde da estirpare. Boni raccontava: “Per combattere i caprifichi si dovettero togliere e risaldare i lastroni di apertura degli archi a Settimio Severo ed a Tito, dove le radici erano internate per metri interi. […] Stiano alquanto lontano dai monumenti gli alberi a chioma molto espansa […]”
Gli innumerevoli scavi archeologici, iniziati nel clima del Risorgimento, avevano portato alla luce molti siti, i quali, dapprima protetti dal terreno e dal manto di una vegetazione ben strutturata, si prestavano ora alla colonizzazione di specie pioniere e tipiche di ambienti disturbati, come l’ailanto e la robinia, citate dallo stesso Boni. Dal momento in cui la storia di Roma iniziò ad essere scritta, prima dai patrioti dell’Unità d’Italia, poi dalla volontà pedagogica e politica del fascismo, i monumenti vennero isolati dal loro contesto urbanistico, privati della vegetazione spontanea e intorno ad essi, in un riferimento peraltro non proprio pedissequo al giardino italiano si piantumarono lecci, cipressi, e alberi “a chioma espansa” come i pini. Quest’ultima specie, che nel 1924 diede il nome a una composizione musicale di Ottorino Respighi (1879-1936), ancora domina la maggior parte delle nostre aree archeologiche, e a causa del suo vigoroso apparato radicale, si è rivelata responsabile di gravi danni al patrimonio archeologico.
Eppure, tornando alla nostra edera su quel rudere che abbiamo immaginato, varrebbe la pena citare proprio Giacomo Boni, quando diceva: “L’edera nuoce quanto i caprifichi, se ha radice nelle masse murarie, ma rimane talvolta unico sostegno alle strutture che ha disgregate; radicata a terra, dà grazia, non priva di severità, a’ miseri avanzi denudati”.
In fondo, nella mentalità antica, una pianta di edera cresceva laddove Dioniso aveva poggiato il suo piede. E Dioniso era il dio del divenire, colui che costringeva l’uomo a diventare altro, a mettere sempre in discussione l’ordine umano, l’aspetto definito delle cose.